05 febbraio 2008

La tessitrice di tarme












Il procedimento era piuttosto complesso, il risultato improbabile. La quantità d’insetti, che doveva accumulare, era proporzionata all’oggetto da confezionare. Questa volta la vecchia si era incaponita nell’idea di una coperta da letto e matrimoniale per giunta. Com’era stato facile, i primi tempi, approvvigionarsi per un centrino, per un fazzoletto o per un copribarattolo! Si recò dunque, casa per casa, e intrufolandosi con scuse, ora banali ora paradossali, ebbe accesso a vecchi armadi da anni non spalancati. Fu premiata: dalle lenzuola e dai vecchi cappotti così come da maglioni e plaid, furono pescati una ad una, centinaia e centinaia di tarme semiaddormentate. La gente del paese era felice: non avrebbe più comprato canfora o altri odori per allontanare le divoratrici dei loro patrimoni stoffosi.
La raccolta si concluse dopo settimane e mesi di andirivieni. La grande camera della casa, al terzo piano di una palazzina in periferia, ora era stracolma di contenitori d’ogni forma e tipo. Nella penombra dello stanzone, poco illuminato dall’unica finestra dai vetri incrostati, su sedie e poltrone vetuste e sul pavimento, stavano appoggiati cesti di vimini, pentoloni d’alluminio, canestri di canna intrecciata, enormi zuppiere sbeccate e vecchi scatoloni di cartone. Era tutto un ammasso di tarme.
Gli insetti, colore del fango, dormivano tremolando, le superfici vibravano percorse da linee iridescenti dal marrone all’oro, dall’ocra al bianco dei riflessi della poca luce. Una lampadina polverosa, attaccata al soffitto col filo elettrico bianco, illuminava fioca le pareti, dove spiccavano a tratti, tralci di rose rosse e il verde cupo delle foglie di una tappezzeria non vinta dal tempo. La signora delle tarme, dai corti e candidi capelli arricciati si mise a pompare dei vapori di un liquido che avrebbe fatto passare i mucchi tremolanti dal sonno alla funzione successiva.
Andando da un contenitore all’altro, la donna, con piccoli passi e con le braccia ora alzate ed ora calate, sembrava eseguire una danza, mentre il flebile ronzio si assottigliava con pause sempre più lunghe. Un paio d’ore e tutto fu intriso dell’odore del silenzio. Andò nella sua camera da letto ed aprì l’armadio. Si mise a frugare tra i suoi antichi vestiti fino a trovare quello che cercava.
Si spogliò nuda e si osservò alla specchiera dalla cornice di legno chiaro, rami di betulle stile liberty. Il corpo magro era ancora bello: i seni solo leggermente bassi e i capezzoli scuri, vita stretta, gambe lunghe, caviglie sottili, radi i peli del pube. L’abito di seta amaranto, una specie di sottoveste, scivolò morbidamente dalle spalle ai fianchi e si fermò alle ginocchia. Il copriletto sarebbe stato fatto in tempo. Aveva incontrato quel bel signore dai capelli brizzolati, passeggiando nei giardini accanto alla grande piazza. Si erano solamente sorrisi, e le gote le erano arrossite vagamente.
Piero riposava nel cimitero da molti anni ed i figli vivevano lontani in gelide cittadine del nord Europa. Adesso bisognava sbrigarsi. Con un coltello affilato si mise a tritare le tarme ed il volume diminuì fino a riempire solo due grandi ceste. Accese il fuoco e in un pentolone bollì l’intruglio poco per volta. L’impasto tiepido venne filato tutta la notte ottenendo delle matasse brillanti , iridescenti. Pareva seta pesante. Trascorse l’indomani a tessere al grande telaio. I giorni passavano e tritava e bolliva e asciugava e tesseva.
Dimenticò di nutrirsi e finì per dimagrire ancora, finché sparì del tutto. Sul telaio rimase la grande coperta matrimoniale scintillante nel silenzio della casa di periferia al terzo piano di una palazzina che sembrava disabitata. Da una radio una musica di tango. Nient’altro.


Giuseppe Davì

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